Il latte crudo, senza trattamenti di nessun tipo, è un ottimo alimento anche per i microrganismi, compresi alcuni potenzialmente nocivi. La pastorizzazione serve proprio a eliminare i potenziali patogeni dal latte, tramite un riscaldamento con temperature e tempi studiati per riuscire nello scopo e, al tempo stesso, conservare quanto più possibile le proprietà del latte di partenza, sia nel gusto che negli aspetti nutrizionali.
Il latte pastorizzato che troviamo a scaffale può tuttavia portare diciture diverse: qual è quindi la differenza tra latte pastorizzato, latte fresco pastorizzato e latte fresco pastorizzato di alta qualità?
In una parola, la differenza sta tutta nella “delicatezza” del trattamento termico, che non deve tuttavia rinunciare obiettivo primario, ovvero quello della sanificazione dell’alimento. Tolti i microrganismi nocivi, quindi, le caratteristiche d’origine verranno tanto più mantenute quanto più il processo sarà stato “delicato”.
Ma come viene stabilito quanto lo sia stato?
E come viene deciso, di conseguenza, se quel dato latte pastorizzato si dovrà chiamare semplicemente così o potrà, invece, aggiungere un “fresco” o addirittura un “fresco di alta qualità” alla propria denominazione?
Iniziamo a vedere cosa questi tre tipi di latte hanno in comune.
Si tratta, in tutti e 3 i casi, di latti pastorizzati: tutti, quindi, dovranno essere stati scaldati almeno quel tanto che basta per eliminare i potenziali patogeni. Il che viene accertato dall’assenza di un componente specifico, un enzima, che c’è nel latte crudo ma scompare quando la temperatura supera appena quella che elimina i patogeni. Si chiama fosfatasi alcalina. Se lei non c’è, quindi, non ci sono neanche i patogeni. E il latte si guadagna la stella di “pastorizzato”.
Ma se un latte vuole essere “fresco pastorizzato”, come tale o di alta qualità, gli servono dei requisiti i più: deve infatti raggiungere crudo lo stabilimento, essere qui pastorizzato entro 48 ore dalla mungitura, e – dopo trattamento termico – dar prova che il processo sia stato particolarmente blando.
Per verificare quest’ultimo requisito si controllano 2 elementi.
Il primo è la quantità di sieroproteine che ha resistito al trattamento senza alterazioni: le sieroproteine, infatti, sono – tra tutte le proteine del latte – quelle che più facilmente vengono danneggiate dalla temperatura.
Il secondo elemento è la presenza di una sostanza che, in caso di pastorizzazione più spinta, sarebbe invece sparita. Questa sostanza – ancora un enzima, una perossidasi – dev’essere quindi assente nel latte fresco pastorizzato, che sia normale o di alta qualità. Poteva essere presente, invece, nel latte pastorizzato semplice, quello che non portava l’indicazione “fresco”.
Per quanto riguarda le sieroproteine inalterate, invece, sono proprio loro a tracciare il confine dell’alta qualità: se per il “fresco pastorizzato” basta che siano il 14% delle proteine totali (e non son poche: nel pastorizzato normale bastava l’11%), per fregiarsi della denominazione di alta qualità serve averne non meno del 15,5%, a prova di un processo particolarmente delicato con un danno termico il più ridotto possibile.